mercoledì 3 agosto 2016


 
La Gabbia di Milazzo
di Cesare Roberti

 
Il 17 febbraio 1928 una squadra di detenuti rinveniva all’interno del Castello la cosiddetta «gabbia di Milazzo», l’orribile strumento penitenziario oggi esposto presso il Museo Criminologico di Roma. Cinque anni dopo, precisamente il 7 maggio 1933, la «Tribuna Illustrata» pubblicava un interessantissimo articolo in cui l’autore, Cesare Roberti, ripercorreva con dovizia di dettagli le vicende relative al macabro rinvenimento ed alle successive indagini archivistiche che, unitamente ad un’accurata perizia medico legale, consentirono di identificare la vittima che vi era stata rinchiusa.

 La Gabbia di Milazzo nella copertina della «Storia della Tortura» edita da Mondadori
 
 
L’infernale supplizio della gabbia. Il 17 febbraio 1928 alcuni detenuti che erano stati adibiti a lavori di scavo nella zona limitrofa al Castello di Milazzo, sede attuale di un carcere giudiziario, trovarono, a circa venti centimetri di profondità, una gabbia di ferro rassomigliante ad una rozza armatura formata da liste intrecciate e tenute insieme da grossi bulloni.
 
La Gabbia del Castello di Milazzo al momento del rinvenimento nel 1928
 
Non fu difficile liberare la gabbia dal terriccio che la riempiva e si rinvennero delle ossa umane, mentre nella parte superiore dell’armatura apparve, ancora stretto tra i ferri, un teschio perfettamente conservato. Diligenti ricerche tra la terra fecero ritrovare anche cinque bottoni metallici, corrosi però dalla ruggine e quindi difficilmente identificabili. In un primo momento, alla scoperta non s’attribuì eccessivo valore e, per quanto si fosse compreso trattarsi di uno strumento di giustizia, la gabbia, le ossa e i bottoni furono rinchiusi in una cassa e conservati nei magazzini del carcere. Soltanto un paio d’anni dopo si ripensò ad essa, allorquando il Ministro della Giustizia diede disposizione a tutti gli stabilimenti di pena per l’invio al costituendo Museo Criminale dei cimeli, dei documenti e degli arnesi attestanti i sistemi antichi e moderni per l’amministrazione della giustizia. La gabbia fu inviata a Roma e divenne oggetto di un accurato esame da parte del giudice Roberto Vozzi, al quale era stato commesso l’incarico di ordinare il Museo. Lo strumento di morte, infatti, se poteva avere qualche analogia con le gabbie ancora esistenti a Mantova e a Piacenza ed adoperate tra il 1300 e il 1400 per lasciarvi morire di inedia e di sofferenze speciali categorie di condannati, si distaccava notevolmente da esse come forma e proporzione.

Rivelazioni di tre bottoni. A rileggere «Figure e fantasmi» di Corrado Ricci si ritrova, a questo pro­posito, che gabbie dì ferro e di legno, sospese fuori di torri e di palazzi, veni­vano spesso usate per rinchiudervi chie­rici colpevoli di reati di sangue o di ladronerie o prigionieri la cui visione fosse di esempio e di monito a chi meditasse ribellione contro la signoria della cit­tà. Ma queste gabbie erano quasi simili nelle forme alle stie dei polli ed il condannato, pur non avendo che limitatissi­ma libertà di movimenti, poteva restare disteso e quindi in condizione di resiste­re anche per lungo tempo.

Si narra, così, che un tal Ugolino di Riguzzo, imprigionato nel 1312, rimase per un anno intero nella gabbia sospesa ad un angolo del palazzo pubblico di Bo­logna, pur essendo nutrito soltanto con pane ed acqua, mentre, a Mantova, un certo Giberto Fogliani imprigionato nel 1344, insieme a suo figlio Ludovico, so­pravvisse per molto tempo a costui, nonostante dovesse restare per qualche gior­no vicino al cadavere del suo figliolo.


 

 


La gabbia di Milazzo, invece, ripete grossolanamente la forma del corpo u­mano: dal complesso dell’armatura si di­staccano due appendici in corrispondenza delle gambe e l’armatura stessa si re­stringe all’altezza del collo per termina­re in una specie di maschera destinata a racchiudere la testa. Questa maschera, sormontata da un grosso anello entro cui si passava la catena per sospendere in alto la gabbia, è formata, anzi, da liste di ferro così vicine tra di loro da rin­serrare esattamente il capo del disgra­ziato che nell’armatura veniva rinchiuso.

Poiché invano si cercò di ritrovare nelle cronache di Milazzo qualche elemento che gettasse un filo di luce sull’avveni­mento che aveva determinato la co­struzione e l’uso della gabbia, l’indagine fu estesa ai bottoni ritrovati nel terric­cio che riempiva l’armatura e che, per questo fatto, dovevano per forza appartenere all’uomo che era stato rinchiuso nella gabbia stessa.

Con un pò di pazienza ed eliminando gradatamente la crosta rugginosa, si stabilì che tre dei bottoni sono a superficie piatta con la scritta marginale «Enniskilling 27» e con la raffigurazione centrale di tre torri, di cui quella di mezzo è sormontata da una bandiera. Nella faccia interna d’uno di questi tre bottoni sì riuscì anche a leggere le parole «Convent Garden». Gli altri due bottoni sono invece convessi e mentre sul primo è incisa un’àncora, sul secondo appaiono in rilievo tre cannoncini.

Il disertore della battaglia di Maida. Questi elementi lasciarono subito pensare che po­tesse trattarsi di un militare inglese, cosa che, conosciuta al momento dell’inaugurazione del Museo Criminale (la Tribuna Illustrata se ne occupò ampia­mente), diede la stura ad una ridda di supposizioni e di ipotesi, nel corso delle quali troppo zelanti gior­nalisti inglesi misero in scena un fosco episodio di barbaria avvenuto nel castello siciliano per opera forse della popolazione della città.

Ma ecco invece che una diligente ricerca compiuta in Inghilterra e della quale dà conto lo stesso giu­dice Vozzi nella «Rivista di diritto penitenziario», svela il mistero e ricostruisce esattamente l’episodio.

Nel 1806, quando cioè l’astro di Napoleone sfolgo­rava nel cielo d’Europa, la Sicilia era stata occupata ad un buon nerbo di truppe inglesi e rocca muni­tissima dell’armata di S. M. Britannica era il castello di Milazzo, il quale, vecchio già di sei secoli, resisteva con la sua mole imponente all’ingiuria del tempo e alle vicende della guerra. Quando arrivò il mese di luglio, sir John Stuart, che comandava le truppe in­glesi, decise di attaccare le milizie francesi che erano agli ordini del generale Regnier. Lo scontro avvenne il 6 luglio sulla spiaggia di Maida (Calabria) e ad esso partecipò il 27° fanteria denominato nell’armata come il «Royal Euniskilling Fusilier», cioè quel reggimento indicato dai bottoni ritrovati nella gabbia. Le ricerche si indirizzarono allora verso gli antichi ruoli dell’«Euniskilling» e si trovò che dopo la battaglia di Maida risultarono mancanti due soldati: Peter Towland, fatto prigioniero, e Andrew Leonard, indicato come disertore.
 
Gabbia analoga a quella di Milazzo custodita presso il Criminal Museum di Siena


Ombre diradate dalla scienza. Tra questi due soldati bisognava cercare l’uomo della gabbia e poichè un militare fatto prigioniero non poteva subire una così orrenda pena si concluse che l’ingab­biato dovesse essere Andrew Leo­nard. Costui, caduto nuovamente in mano ai suoi, dovette essere condannato a morte dai capi dell’ar­mata che risiedevano a Milazzo. Ma questo parve poco per punire un disertore e si costruì una gabbia di ferro assai simile a quella che in Inghilterra si adoperava per esporre nel crocicchi stradali i cor­pi degli assassini dopo che essi ave­vano subito la pena capitale.

A questo punto la storia si vela d’ombra ed è una minuta indagine compiuta dal prof. De Crecchio sui resti del soldato inglese che ci permette di completarla. Lo studioso, attraverso una lunga serie di rilievi sulle ossa e sui denti, conclude che Andrew Leonard era alto metri 1,65 o 1,66, che aveva tra i 30 e i 32 anni, probabilmente biondo, certamente pallido.

Se si considera che la gabbia è alta metri 1,82 e che essa in corrispondenza del collo si restringe talmente da non lasciar passare la testa, è logico con­cludere che Andrew Leonard non sarebbe riuscito a poggiare i piedi sul fondo della gabbia stessa, onde sarebbe morto per strangolamento. E poi­ché allo scheletro mancano le parti inferiori delle gambe e le mani, si con­clude che al disertore, dopo essere stato giustiziato, vennero tagliate gambe e mani per rendere il castigo ancor più esemplare, e che soltanto un ca­davere mutilato fu chiuso nella gabbia per essere esposto, dall’alto d’una torre del Castello di Milazzo, alla vista dell’armata perché fosse di efficace e severo monito.

Quando il corpo, ancora vestito dell’uniforme, si decompose, si pensò che era più sbrigativo seppellirlo con tutta la gabbia, cosa che fu fatta scavando una fossa poco profonda presso le mura del castello.


Gabbia di Milazzo, esemplare originale custodito al
Museo Criminologico di Roma (MuCri)
foto Anna Fuduli, giugno 2005