La Gabbia di Milazzo
di Cesare Roberti
Il 17 febbraio 1928 una squadra di detenuti rinveniva all’interno del
Castello la cosiddetta «gabbia di Milazzo», l’orribile strumento penitenziario
oggi esposto presso il Museo Criminologico di Roma. Cinque anni dopo,
precisamente il 7 maggio 1933, la «Tribuna Illustrata» pubblicava un
interessantissimo articolo in cui l’autore, Cesare Roberti, ripercorreva con
dovizia di dettagli le vicende relative al macabro rinvenimento ed alle
successive indagini archivistiche che, unitamente ad un’accurata perizia medico
legale, consentirono di identificare la vittima che vi era stata rinchiusa.
L’infernale supplizio della gabbia. Il 17 febbraio 1928 alcuni
detenuti che erano stati adibiti a lavori di scavo nella zona limitrofa al
Castello di Milazzo, sede attuale di un carcere giudiziario, trovarono, a circa
venti centimetri di profondità, una gabbia di ferro rassomigliante ad una rozza
armatura formata da liste intrecciate e tenute insieme da grossi bulloni.
La Gabbia del Castello di Milazzo al momento del rinvenimento nel 1928
Non fu difficile liberare la
gabbia dal terriccio che la riempiva e si rinvennero delle ossa umane, mentre
nella parte superiore dell’armatura apparve, ancora stretto tra i ferri, un
teschio perfettamente conservato. Diligenti ricerche tra la terra fecero
ritrovare anche cinque bottoni metallici, corrosi però dalla ruggine e quindi
difficilmente identificabili. In un primo momento, alla scoperta non s’attribuì
eccessivo valore e, per quanto si fosse compreso trattarsi di uno strumento di
giustizia, la gabbia, le ossa e i bottoni furono rinchiusi in una cassa e
conservati nei magazzini del carcere. Soltanto un paio d’anni dopo si ripensò
ad essa, allorquando il Ministro della Giustizia diede disposizione a tutti gli stabilimenti di pena per
l’invio al costituendo Museo Criminale dei cimeli, dei documenti e degli arnesi
attestanti i sistemi antichi e moderni per l’amministrazione della giustizia.
La gabbia fu inviata a Roma e divenne oggetto di un accurato esame da parte del
giudice Roberto Vozzi, al quale era stato commesso l’incarico di ordinare il Museo.
Lo strumento di morte, infatti, se poteva avere qualche analogia con le gabbie
ancora esistenti a Mantova e a Piacenza ed adoperate tra il 1300 e il 1400 per lasciarvi
morire di inedia e di sofferenze speciali categorie di condannati, si
distaccava notevolmente da esse come forma e proporzione.
Rivelazioni di tre bottoni. A rileggere «Figure e fantasmi» di
Corrado Ricci si ritrova, a questo proposito, che gabbie dì ferro e di legno,
sospese fuori di torri e di palazzi, venivano spesso usate per rinchiudervi
chierici colpevoli di reati di sangue o di ladronerie o prigionieri la cui
visione fosse di esempio e di monito a chi meditasse ribellione contro la
signoria della città. Ma queste gabbie erano quasi simili nelle forme alle stie
dei polli ed il condannato, pur non avendo che limitatissima libertà di
movimenti, poteva restare disteso e quindi in condizione di resistere anche
per lungo tempo.
Si narra, così, che un tal
Ugolino di Riguzzo, imprigionato nel 1312, rimase per un anno intero nella
gabbia sospesa ad un angolo del palazzo pubblico di Bologna, pur essendo
nutrito soltanto con pane ed acqua, mentre, a Mantova, un certo Giberto Fogliani
imprigionato nel 1344, insieme a suo figlio Ludovico, sopravvisse per molto tempo
a costui, nonostante dovesse restare per qualche giorno vicino al cadavere del
suo figliolo.
La gabbia di Milazzo, invece,
ripete grossolanamente la forma del corpo umano: dal complesso dell’armatura si
distaccano due appendici in corrispondenza delle gambe e l’armatura stessa si
restringe all’altezza del collo per terminare in una specie di maschera destinata
a racchiudere la testa. Questa maschera, sormontata da un grosso anello entro
cui si passava la catena per sospendere in alto la gabbia, è formata, anzi, da
liste di ferro così vicine tra di loro da rinserrare esattamente il capo del disgraziato
che nell’armatura veniva rinchiuso.
Poiché invano si cercò di
ritrovare nelle cronache di Milazzo qualche elemento che gettasse un filo di
luce sull’avvenimento che aveva determinato la costruzione e l’uso della
gabbia, l’indagine fu estesa ai bottoni ritrovati nel terriccio che riempiva
l’armatura e che, per questo fatto, dovevano per forza appartenere all’uomo che
era stato rinchiuso nella gabbia stessa.
Con un pò di pazienza ed
eliminando gradatamente la crosta rugginosa, si stabilì che tre dei bottoni
sono a superficie piatta con la scritta marginale «Enniskilling 27» e con la
raffigurazione centrale di tre torri, di cui quella di mezzo è sormontata da
una bandiera. Nella faccia interna d’uno di questi tre bottoni sì riuscì anche
a leggere le parole «Convent Garden». Gli altri due bottoni sono invece
convessi e mentre sul primo è incisa un’àncora, sul secondo appaiono in rilievo
tre cannoncini.
Il disertore della battaglia
di Maida. Questi elementi lasciarono subito pensare che potesse trattarsi
di un militare inglese, cosa che, conosciuta al momento dell’inaugurazione del
Museo Criminale (la Tribuna Illustrata se ne occupò ampiamente), diede
la stura ad una ridda di supposizioni e di ipotesi, nel corso delle quali
troppo zelanti giornalisti inglesi misero in scena un fosco episodio di
barbaria avvenuto nel castello siciliano per opera forse della popolazione
della città.
Ma ecco invece che una diligente
ricerca compiuta in Inghilterra e della quale dà conto lo stesso giudice Vozzi
nella «Rivista di diritto penitenziario», svela il mistero e ricostruisce
esattamente l’episodio.
Nel 1806, quando cioè l’astro di
Napoleone sfolgorava nel cielo d’Europa, la Sicilia era stata occupata ad un
buon nerbo di truppe inglesi e rocca munitissima dell’armata di S. M.
Britannica era il castello di Milazzo, il quale, vecchio già di sei secoli,
resisteva con la sua mole imponente all’ingiuria del tempo e alle vicende della
guerra. Quando arrivò il mese di luglio, sir John Stuart, che comandava le
truppe inglesi, decise di attaccare le milizie francesi che erano agli ordini
del generale Regnier. Lo scontro avvenne il 6 luglio sulla spiaggia di Maida (Calabria)
e ad esso partecipò il 27° fanteria denominato nell’armata come il «Royal Euniskilling
Fusilier», cioè quel reggimento indicato dai bottoni ritrovati nella gabbia. Le
ricerche si indirizzarono allora verso gli antichi ruoli dell’«Euniskilling» e
si trovò che dopo la battaglia di Maida risultarono mancanti due soldati: Peter
Towland, fatto prigioniero, e Andrew Leonard, indicato come disertore.
Gabbia analoga a quella di Milazzo custodita presso il Criminal Museum di Siena
Ombre diradate dalla scienza. Tra
questi due soldati bisognava cercare l’uomo della gabbia e poichè un militare
fatto prigioniero non poteva subire una così orrenda pena si concluse che l’ingabbiato
dovesse essere Andrew Leonard. Costui, caduto nuovamente in mano ai suoi,
dovette essere condannato a morte dai capi dell’armata che risiedevano a
Milazzo. Ma questo parve poco per punire un disertore e si costruì una gabbia
di ferro assai simile a quella che in Inghilterra si adoperava per esporre nel
crocicchi stradali i corpi degli assassini dopo che essi avevano subito la
pena capitale.
A questo punto la storia si vela
d’ombra ed è una minuta indagine compiuta dal prof. De Crecchio sui resti del
soldato inglese che ci permette di completarla. Lo studioso, attraverso una
lunga serie di rilievi sulle ossa e sui denti, conclude che Andrew Leonard era
alto metri 1,65 o 1,66, che aveva tra i 30 e i 32 anni, probabilmente biondo,
certamente pallido.
Se si considera che la gabbia è
alta metri 1,82 e che essa in corrispondenza del collo si restringe talmente da
non lasciar passare la testa, è logico concludere che Andrew Leonard non
sarebbe riuscito a poggiare i piedi sul fondo della gabbia stessa, onde sarebbe
morto per strangolamento. E poiché allo scheletro mancano le parti inferiori
delle gambe e le mani, si conclude che al disertore, dopo essere stato
giustiziato, vennero tagliate gambe e mani per rendere il castigo ancor più
esemplare, e che soltanto un cadavere mutilato fu chiuso nella gabbia per
essere esposto, dall’alto d’una torre del Castello di Milazzo, alla vista
dell’armata perché fosse di efficace e severo monito.
Quando il corpo, ancora vestito
dell’uniforme, si decompose, si pensò che era più sbrigativo seppellirlo con
tutta la gabbia, cosa che fu fatta scavando una fossa poco profonda presso le
mura del castello.
Gabbia di Milazzo, esemplare originale custodito al
Museo Criminologico di Roma (MuCri)
foto Anna Fuduli, giugno 2005
Nessun commento:
Posta un commento